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Spaceways 2024

Spaceways 2024

Courtesy Enrico Bettinello

Spaceways 2024
Mart, Auditorium Melotti
Rovereto
17-18.5.2024

La rassegna Spaceways, giunta quest'anno alla seconda edizione, viaggia su una proposta allargata, tra jazz, elettronica, pop sofisticato, sound art, danza, performance e dj set. Il jazz ha ricevuto ampio spazio in uno dei due fine settimana della programmazione, con scelte significative che attingono a tutto campo nella vasta ramificazione della scena contemporanea.

Punto culminante in questo frangente è stato a nostro avviso il solo di Aruán Ortiz, pianista cinquantenne che può essere senza dubbio incluso nella cerchia selezionata dei più rappresentativi sulla scena di oggi. Collocato in uno spazio del Mart, il Museo roveretano di Arte moderna e contemporanea, il solo di Ortiz era titolato Cub(an)ism, con un'efficace gioco linguistico che da una parte evidenzia l'origine cubana del musicista, dall'altra dichiara il suo atteggiamento, volto a scomporre la musica in frammenti, con una modalità che richiama la moltiplicazione dei punti di vista del cubismo.

Rispettando il principio cubista, la scomposizione va a comporre una forma rigorosa anche nella musica del pianista, che nasce certo con totale approccio improvvisativo, ma è sorvegliata da un istinto e una logica narrativa di grande qualità. La sottigliezza dei dettagli è evidente fin dalle prime battute, quando un ostinato in pianissimo si intreccia con le articolazioni iniziali, in cui appaiono e si modificano costantemente motivi ritmici e melodici, accenni di armonie, pennellate timbriche e accenti di forza notevole.

Ecco, per quasi un'ora si dipana la narrazione, ora cubista, ora surreale, ora cubana, fortemente intrisa di riferimenti a grandi ecosistemi della musica nera, con riverberi di Ellington, Tatum, Jarrett e Bley. La morbidezza, la trasparenza di tanti passaggi non cade mai nella leziosità mielosa, c'è piuttosto una tensione interna che percorre ogni momento. Alla fine, arriva con più evidenza Cuba, ma anche in questo caso non si tratta di cartolina, bensì di cenni al bolero e alla rumba più vicini al trattamento colto che fu sviluppato nell'isola caraibica. Cenni, appunto, ben riconoscibili ma subito immersi nella scomposizione, nella dissimulazione mimetica. Come sa gestire l'avventura senza rete, Ortiz, tenendo costantemente la barra della forma narrante.

Un altro momento nelle sale espositive del Mart è stato affidato al trio Jones Jones di Larry Ochs, Mark Dresser e Vladimir Tarasov. Una formazione di lunga data, con registrazioni al proprio attivo fin dal 2008, che riunisce i tre senatori del jazz contemporaneo in un contesto di improvvisazione totale, senza remore. Non c'è indugio nel tuffarsi senza rete in una sfida di contrasti, corrispondenze, azzardi. Mentre la batteria di Tarasov si muove spesso su sonorità morbide, vellutate, ariose, gli altri due strumenti si avventurano nelle esplorazioni delle pratiche meno convenzionali di produzione del suono, trascurando la gradevolezza a favore della forza espressiva e della dissonanza provocatoria. Purtroppo, la sala non offriva la definizione sonora necessaria ad aprezzare la proposta nella sua quantità di dettagli, nelle risonanze e nei riverberi interni, per cui l'ascoltatore doveva spesso immaginare la ricchezza espressiva del contrabbasso di Dresser, ma anche la varietà di emissioni dei sassofoni tenore e sopranino di Ochs.

Una bella sorpresa ha rappresentato per molti la proposta del trio guidato dalla violinista Anais Drago, che con Relevè, insieme ai clarinetti di Federico Calcagno e alla batteria di Max Trabucco, ha costruito un itinerario ben calibrato, cercando connessioni aperte con opere del Ventesimo secolo di Paul Klee, Umberto Boccioni, Alejandro Jodorowsky. La caratteristica dell'organico strumentale già offre un'idea di quanto ci si possa aspettare: la fusione di clarinetto e clarinetto basso con i violini acustico ed elettronico della leader dà luogo a una bella tavolozza di impasti. A questo si aggiunge la solida strutturazione dei brani, a tratti cameristici, spesso basati su nuclei ritmici ben connessi e stratificati. Preziosa la perizia degli interventi solistici, nei quali accanto alla violinista brillano particolarmente le ance di Calcagno.

Le due serate all'Auditorium Melotti presentavano omaggi a personalità di rilievo della storia afroamericana. Il pianista Uri Caine con il suo Honoring Octavius Catto rendeva tributo alla figura dell'attivista per i diritti civili, ucciso da un colpo di pistola nel 1871, a soli trentadue anni; il batterista Hamid Drake, con Turiya -Honoring Alice Coltrane ricordava la forza spirituale della pianista e arpista, sposa e collaboratrice del grande John.

Il lavoro di Caine, composto nel 2014 per orchestra, coro gospel, trio jazz e la voce solista di Barbara Walker, è stato ora rivisto e riproposto con arrangiamento per trio e singola voce. Ricco e articolato nelle sue molteplici implicazioni musicali, dalle quali scaturivano appunto il gospel, ma anche funk, ballad e momenti strumentali free, il progetto è parso non ancora perfettamente calibrato in questa versione, pur con il solido contributo del leader e della batteria sempre dinamica e sensibile di Jim Black. La componente vocale, presente in modo massiccio e affidata tuttora alla Walker, era svolta in modo piuttosto didascalico ed enfatico in certe sezioni, acquistando vibrante energia solo quando entrava la componente più gospel e funk.

Il tributo di Drake si allacciava all'esperienza personale del batterista, che da adolescente ebbe il primo incontro con la musica e la forza spirituale di "Turiya," Alice Coltrane. Per questo lavoro, il batterista ha riunito un gruppo di eccellenza, con Jamie Saft alle tastiere, Jan Bang all'elettronica, Brad Jones al contrabbasso, Sheila Maurice Gray al flicorno, Ndoho Ange alla voce e danza, e non ultimo, l'ottimo Pasquale Mirra al vibrafono. Musicisti provenienti da varie nazioni, tutti collaboratori frequenti di Drake.

Da tale organico è scaturita musica a tratti di forza torrenziale, dai timbri scuri e intrisi di umori africani, schietta come la personalità del batterista, che nei primi quaranta minuti ha trascinato la platea dell'auditorium. Figure melodiche semplici e genuine sostenute da un tellurico tessuto ritmico e cromatico, con la forza spirituale che ne era la dichiarata componente, senza enfasi né pretese di trascendenza. Il set si è poi protratto più a lungo del dovuto, per quasi due ore, con le parole di Drake a descrivere il significato del lavoro e la figura di Alice, con momenti dispersivi alternati ad altre scosse di autentica energia. Una regia più equilibrata lo avrebbe reso perfetto.

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